Il mondo, secondo Giovanni Truppi, è come te lo metti in testa; cantautore napoletano, lo scorso anno è stato candidato ai Nastri D’Argento per la migliore canzone originale per Amori che non sanno stare al mondo, brano composto per l’omonimo film di Francesca Comencini. Abbiamo incontrato l’artista in occasione dell’uscita del suo ultimo album Poesia e Civiltà, pubblicato lo scorso 22 marzo.
Il tuo brano, Borghesia, è uscito lo scorso 15 marzo ed è la canzone che ha anticipato l’album Poesia e Civiltà. La prima cosa a cui ho pensato leggendo il titolo, e in seguito ascoltandola, è un richiamo alla canzone Borghesia” di Claudio Lolli. È solo una mia impressione o c’è qualcosa di vero? E più in generale come è nata la canzone?
Assurdamente io la canzone di Claudio Lolli non la conosco, e andrò ad ascoltarla. Borghesia nasce da alcune mie riflessioni, essendo una tematica che mi ha sempre incuriosito, e facendo parte di questa classe media, è sempre stata molto presente nei miei lavori.
Inoltre mi è successo di leggere La Scuola Cattolica, un romanzo bellissimo di Edoardo Albinati, che parla molto della borghesia e dell’essere un “maschio borghese”. Dunque, rivedendomi per alcuni aspetti, ho deciso di provare a fare un lavoro riguardo a questo argomento, anche se molto più piccolo rispetto al suo romanzo.
Non solo l’interpretazione di Lolli, ma Rock.it, Rumore e molti altri siti web ti identificano come poeta, elegantemente pop, ma sostanzialmente e ripetutamente cantautore. Ti riconosci in questa definizione? Hai iniziato con questa idea/scopo o molto più casualmente ti sei accorto di doverti esprimere nella musica?
Il cantautorato è il mio riferimento e la mia aspirazione, anche se non mi piacciono le categorie ed i generi. Anche un rapper può essere visto come un cantautore. Diciamo che personalmente è un’etichetta che comunque mi si addice, poiché nel mio modo di esprimermi è si presente una grande vena musicale ma prevale sempre l’esigenza umana di raccontare storie e vicende.
Lo scorso 21 marzo è stata la giornata della poesia. Come riesci ad unire musica e poesia?
Innanzitutto, volevo chiarire che anche se poesia è una delle due parole del titolo dell’album, non significa che i brani che ho scritto siano poesie. La poesia la fanno i poeti, io scrivo delle canzoni. La poesia la vivo più come qualcosa a cui tendere, un atteggiamento, un ideale.
L’album è stato registrato gran parte in America, specialmente a New York. C’è un motivo particolare dietro alla scelta di questa città, al di là della superiorità sociale e tecnica che rappresenta?
La maggior parte dell’album è stato registrato in realtà a Pawtucket, un paesino a 400 chilometri da New York, verso Boston.
In realtà l’America mi piace pochissimo per quello che rappresenta. Marco Buccelli, il co-produttore del disco, e produttore dei miei dischi precedenti, nonché mio batterista da vent’anni, vive in America da quindici e grazie a lui ho imparato a conoscerla meglio.
Dal punto di vista musicale ho come l’impressione che l’America che viviamo nel nostro quotidiano non sia la stessa di tanti americani. In realtà c’è una cultura americana interessante e molto piacevole, e soprattutto separata dall’America colonialista ed egemonica che viene percepita. È la stessa cultura che ci ha regalato il rock n’ roll!
New York, che è la città dove Marco vive, è molto speciale e trasmette qualcosa di particolare.
New York e Napoli giacciono sullo stesso parallelo, il quarantunesimo. Tu vieni da Napoli, una città che per tantissime cose amiamo. Una di queste è la musica, che si dirama dall’hip hop a Pino Daniele, dal blues e dal funk al neomelodico. Tutti gli artisti napoletani hanno un forte rapporto e legame, ribadito e sottolineato, con la città di appartenenza. Tu che rapporto hai con la tua Napoli?
Sono molto grato di essere nato a Napoli, anche se ormai non ci vivo da quindici anni. Mi sembra sempre di ritrovarla nel mio modo di guardare le cose, anche se ho scelto di esprimermi in italiano invece che in dialetto; non parlo tanto della città nei testi e fondamentalmente non rivendico questa mia appartenenza. Per me c’è un’assoluta coerenza tra quello che scrivo e la città da cui vengo. La musica napoletana più antica è un qualcosa a cui mi sento molto legato; ad esempio, un personaggio su tutti a cui mi sento vicino è Roberto Murolo.
C’è un qualche artista italiano con cui vorresti collaborare o un genere musicale, in Italia, che ti piace particolarmente?
Sono un grandissimo appassionato del genere hip hop, e sono un grandissimo amante di Dargen D’Amico. Lo ritengo uno delle massime forme di espressione e scrittura presente in Italia. Mi piaceva un sacco, e mi ha anche aiutato molto, il suo disco Vivere aiuta a non morire. Tra le tante cose quell’album mi piaceva perché parlava di tutto, dalle “tette” a “Dio”. Un altro lavoro suo che mi ha toccato e ritengo incredibile è Musica per non musicisti.
Qualche anno fa hai documentato su Twitter il processo di trasformazione di un pianoforte verticale in uno strumento facilmente trasportabile. Come hai pensato di costruire, o meglio, di modificare lo strumento?
Io nasco pianista. Però dal vivo ho sempre suonato la chitarra elettrica, perché mi piacevano molto le chitarre elettriche e non mi piacevano le tastiere; tendevo verso un suono acustico e meno sintetico. Poi, anche nel rapporto con la band, desideravo un contatto più fisico con lo strumento che è una cosa che la chitarra elettrica ti permette e il pianoforte no. La questione fondamentale era che non avevo grandi mezzi per portare con me qualcosa di troppo grosso.
Dunque, ho pensato a questo rimpicciolimento. Poco denaro, ma tantissimo tempo. Inizialmente ho contattato accordatori, liutai e così via, ma tutti, ovviamente, prendendomi per pazzo, hanno declinato. Quindi con frollino e sega ho iniziato a lavorare da solo, per togliere una decina di tasti a destra e una decina a sinistra. Ho creato un sistema che facesse fuoriuscire la tastiera con uno scatto, e un giorno, con la scusa di farmi accordare il mio vero pianoforte, ho chiamato un accordatore, Daniele Pintaldi, che ha accolto la causa. Con lui abbiamo ottimizzato lo strumento ed ora lo porto sempre con me in tour.
Intervista a cura di Antonio La Mancusa e Edoardo Clerici
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