Vincenzo, in arte Maggiore (come il suo cognome), è un cantautore brindisino che racconta il mondo visto dagli occhi di una persona sensibile, sincera e ottimista al punto giusto. Lo abbiamo intervistato per parlare del suo ultimo album Da che Mondo è Mondo… e per scoprire di più sulla sua dimensione artistica.
Chiedo di poter registrare la conversazione. “Ma poi verrà pubblicata? devo stare attento a quello che dico? o posso dire le parolacce tranquillamente?”
Vincenzo non ha peli sulla lingua e si prospetta una conversazione vivace.
Maggiore – fa strano chiamarti così – è un cantatore, ma nel presentarsi ha le sembianze di un progetto corale. Dicci la verità: chi è Maggiore? Si tratta davvero di un solista?
Ogni mia esperienza, sin dall’esordio con il primo lavoro (il primo album Vie di Fuga N.d.R.), è stata condivisa con altre persone, perché credo nella forza e nelle possibilità generate dall’incontro con gli altri. Credo che questo discorso trascenda la musica. In generale nella nostra vita abbiamo bisogno degli altri. Il periodo storico che stiamo vivendo rende evidente questa necessità. Nel 2013 ero ancora limitato dall’inesperienza e quindi mi sono affidato ad altri. Ho fatto la “spugna” circondandomi di artisti e musicisti più esperti. Vie di Fuga è stato registrato da 26 persone. Per il mio ultimo lavoro invece, ho cambiato approccio. Mi sono affidato ad un numero ristretto di musicisti, con i quali ho trascorso 10 giorni nel Last Floor Studio per registrare le tracce. Inoltre avevo la necessità che la mia musica rispettasse i canoni che l’industria musicale impone. Mi sono dunque rivolto ad Umberto Coviello, che ha curato la produzione artistica e gli arrangiamenti. Grazie al suo grande aiuto sono riuscito a dare uniformità ai brani.
Tornando alla coralità, credo si tratti di un atteggiamento. È il saper stare in mezzo agli altri, difendendo la propria linea di pensiero con rispetto e confrontandola con critiche e consigli.
Questa coralità emerge anche dai temi delle tue canzoni che sono dei veri e propri racconti al plurale.
Si, in qualche modo ho voluto dare voce alle storie rappresentative della comunità, cercando di mostrare soprattutto l’ambivalenza di alcune. Nell’Uomo Lupo racconto la paura del diverso, mentre in Kush me Degjon la prospettiva è proprio quella dello straniero, che ripone le sue speranze in un viaggio in mare. Nello specifico racconto dello sbarco del ’91, quando circa 30.000 persone albanesi sono state accolte qui a Brindisi. Le stesse storie possono avere prospettive completamente differenti.
Credo che questo non sia l’unico filo conduttore. In ogni brano c’è un riferimento al mare. Probabilmente lo hai fatto con una naturalezza inconscia, ma ne parli in tantissime declinazioni diverse. Nelle già citate Uomo Lupo e Kash me Degjon, così come in Delacroix, L’Attimo e Onde, con riferimenti espliciti. Ma la cosa che mi ha sorpreso è che sei riuscito ad inserire questo elemento in ciascuna traccia. Ti va di raccontarci cosa significa per te il mare?
Hai ragione ci hai preso. Ad essere sincero l’ho notato dopo, una volta che tutti i tasselli erano al loro posto. Intanto il mare è l’elemento caratteristico della mia città e della comunità che la popola. Non si può parlare di storie condivise senza usare questa esperienza comune che è il mare. Io vivo a Brindisi e ho sempre dato per scontato il mare, il porto, le pause pranzo in spiaggia… Negli ultimi anni sono diventato consapevole di questa fortuna. Quasi per caso mi sono avvicinato ad un gruppo di vogatori, i Remuri. Da quel momento il mare è diventata un’esperienza quotidiana e consapevole. Ho iniziato con delle brevi passeggiate in mare per poi arrivare a gareggiare in competizioni agonistiche. Non c’è niente di più bello di andare in barca in inverno: puoi avere tutti i casini del mondo, ma quando prendi il largo e ti isoli dalla terra. Purtroppo in questo periodo non ci siamo potuti allenare per via del lockdown, ma lunedì finalmente tornerò a vogare.
Parliamo di questo periodo. Come hai vissuto la quarantena?
Ho avuto la fortuna di poter lavorare a casa. Tutto questo isolamento, tutto questo tempo da solo in silenzio, se per molti sono stati motivo di insofferenza e noia, per me sono state delle preziose occasioni. Ho avuto modo di suonare, scrivere e rivedere tanti pezzi messi da parte. Ma soprattutto ho avuto la possibilità di ricredermi su alcune idee. Devo essere sincero. Ero convinto che questo sarebbe stato il mio ultimo album e che forse avrei pubblicato qualche singolo ogni tanto. Viviamo in un periodo storico in cui non c’è mai tempo da dedicare all’ascolto. Oggi quasi nessuno riesce ad ascoltare un album per intero e ancor meno seguendo l’ordine delle tracce. Nel 2000 l’ascolto del CD era un rito di condivisione con gli amici. Oggi tutto questo non ha più lo stesso valore. Poi però, in questi mesi ho realizzato che non mi importa.
Quindi stai già lavorando ad un terzo progetto. Di che si tratta?
Io mi sento a tutti gli effetti un indipendente e finalmente ho capito cosa vuol dire questa parola. Significa fare davvero quello che si vuole senza dare conto a nessuno. Per lavoro faccio il giornalista e qualche anno fa mi sono ritrovato a fare l’intervista ad un grande cantautore, Gianmaria Testa, una grandissima penna italiana che purtroppo è venuta a mancare. Quando gli chiesi “che cosa bisogna fare per fare arte in Italia?” Lui rispose che per fare l’artista bisogna avere un altro lavoro. È così. Per fare veramente ciò che desideri, devi essere totalmente svincolato da ogni ottica economica, fregandotene ad esempio del numero di ascolti che farà il tuo album e di quanto ti farà guadagnare. È ciò che penso adesso. La mia musica deve aver senso per me. Tutto è nato da una canzone d’amore che non mi sarei mai aspettato di scrivere. È stato il la che mi ha portato a mettere insieme 8 tracce in cui racconto di me. Questa volta voglio essere libero. Ho già in mente la veste che avrà ogni brano e sono pronto a spaziare diversificando molto. Sarà certamente importante confrontarmi con amici e musicisti con i quali collaboro da tempo, ma l’approccio sarà diverso dal solito. Non devo dare conto a nessuno e voglio cogliere ciò che di buono può darmi quel che faccio. Se poi qualcuno l’ascolterà e ci troverà del bello, ben venga, altrimenti sarò felice di aver fatto qualcosa per me.
A proposito di felicità. La seconda traccia (Delacroix) del tuo album è una bomba. Ti entra in testa e non riesci più a smettere di cantarla. Parli di cos’è per te la felicità, attraverso esperienze semplici e quotidiane e alla fine contagi chi ti ascolta con tutto questo ottimismo. Pensando a questi ultimi mesi, tra tragedie, disastri ambientali, questa pandemia… Credi ancora alla felicità, così come ripeti nella canzone?
Questo periodo ci ha insegnato che non puoi decidere tutto, quindi è indispensabile crederci. In questo senso la felicità diventa un impegno. Ma non solo per noi stessi, diventa una responsabilità sociale nei confronti delle persone che amiamo e che ci circondano. Bisogna crederci e impegnarsi, anche quando le cose non vanno come speriamo. Quando ho scritto da che mondo è mondo ripudiavo l’idea di relazione e non ci speravo, ma inaspettatamente le cose sono cambiate e mi sono anche ritrovato ad affrontare le sfide di un rapporto a distanza. Fino a qualche mese fa ero convinto che questo sarebbe stato il mio ultimo album e invece adesso sono già pronto ad una nuova produzione. La felicità, come l’amore vanno costruiti anche a costo di cambiare. Perché avere paura di cambiare è anche peggio di morire.
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