Luca Di Cataldo, in arte Weird Bloom, torna a quasi un anno di distanza dall’album Blisstonia, con una collaborazione internazionale per il nuovo EP The Flying Pan Club, pubblicato lo scorso 22 febbraio per We Were Never Being Boring (WWNBB).
L’ultimo lavoro dell’artista romano vanta la presenza del duo canadese Dizzyride (Zoë Kiefl e Nicola Donà), con il quale condivide una visione artistica fatta di soul, psichedelia, afrobeat e grafiche vintage.
Abbiamo intervistato Weird Bloom per approfondire il suo stile fuori dagli schemi; ecco cosa ci ha raccontato:
Il progetto porta il nome di Weird Bloom, dove weird sta per strano, stravagante, quindi ti chiedo: qual è la cosa più weird che hai fatto?
Di così strano non saprei. Di sicuro la cosa più strana è stata una delle mie ultime esperienze, ovvero lavorare alla produzione dell’album, Blisstonia, insieme a Don Bolles. Un pazzo! Uno veramente fuori da ogni categoria, che ha lavorato con tantissimi personaggi tra i quali Ariel Pink e Smashing Pumpinks.
Weird Bloom una volta era Weird Black: come mai hai scelto di identificarti con l’assenza di colori mentre i tuoi album e le tue idee si presentano come l’opposto?
Black, soprattutto se associato a weird, strampalato, è un termine difficile: soprattutto quando inizi ad uscire dai confini dell’Italia, c’è sempre il rischio che possa essere frainteso in senso “razzista”, specialmente negli U.S.A., dove il fenomeno lo si vive quotidianamente.
Purtroppo l’etichetta e il management hanno preferito non correre il rischio di essere scambiati come “promotori di odio”, quali non siamo.
Quindi, siccome l’importante era il concetto Weird, ho e abbiamo preferito cambiare il termine Black con Bloom.
Voglio tornare un attimo sull’aspetto visuale dei tuoi lavori: Hy Brazil, il tuo album di debutto, e Blisstonia, come il pianeta citato in un episodio dei Simpsons, hanno due copertine molto diverse tra loro; se nel primo caso vediamo un disegno che ritrae te e la tua ragazza, quasi in maniera ingenua, semplice, nel secondo troviamo un lavoro molto più strutturato.
Il posto a cui faccio riferimento nel disco è proprio quello, la terra promessa che viene raccontata nei Simpsons (in italiano chiamata Beatitonia)!
La copertina di Blisstonia è opera mia, sono un graphic designer, e cercavo qualcosa che fosse d’impatto.
Anche se di primo acchito Hy Brazil appare più scarno e semplice, è stato molto intimo e dunque difficile da realizzare, mentre Blisstonia è qualcosa di più ricercato nel suono, che nell’intimità dei testi. La copertina voleva essere un pò kitsch. Volevo che ricordasse quei mercatini che trovi passeggiando in Sud America, in stile Perù.
Come è nato Blisstonia? Ci sono state delle collaborazioni?
Blisstonia nasce da un discorso fatto assieme un mio caro amico di Roma, cantante e leader di una band che fa cover dei Beatles, tanto è che sono diventati la prima band romana in questa specialità. Un beatles maniaco, diciamo. Volevamo riportare un pò quelle sonorità e quei contesti, quasi come la stessa Blisstonia dei Simpson mostra, che rimandano ad un mondo di serenità ed amore.
Questi musicisti ti seguono anche nei live?
Si, ma non tutti. Solo alcuni.
All’inizio parlavi di Don Bolles e Ariel Pink, colossi della scena punk americana; tu invece hai suonato un po’ in tutto il mondo, in particolare a Londra: com’è suonare all’estero? C’è differenza tra suonare nel Regno Unito e qui in Italia?
Sinceramente ti devo confessare che nel suonare davanti ad un pubblico, che sia a Londra o a Roma, non ho trovato differenza. Sono le persone che fanno il concerto, e sono le medesime da qui (Roma) a Londra.
Allo stesso tempo però la cosa che mi ha più colpito, nel suonare in Inghilterra, è proprio la risposta ai miei progetti ed idee. Scrivo musica in inglese e che questa sia riconosciuta in un Paese anglofono mi fa dire: cavolo allora non ho fatto delle cavolate! Ci sta!
Chiedo perchè spesso all’estero si tende ad andare ad ascoltare musica dal vivo anche quando l’artista non è conosciuto, cosa che non accade così di frequente in Italia. È l’idea di andare a conoscere un musicista anzichè di andare perchè lo si conosce già.
Esatto. Come dicevo, non ho trovato grandi diversità nel suonare davanti ad un pubblico a Roma o a Londra. Ma la differenza c’è nel lato opposto, ovvero in come viene approcciata la musica. Oggi ci sono tantissimi concerti di cantanti che riempiono arene e palazzetti di ragazzi e ragazze, di giovani che finiscono per sentirsi loro stessi i protagonisti dell’evento, canticchiando la solita melodia nel ritornello e nella strofa, con cellulari annessi. La musica non c’è! (ride).
Non per questo gli artisti in Italia scadono o mancano, anzi! Ce ne sono moltissimi, e uno tra i miei preferiti su tutti, è Giorgio Poi. Tremendamente autentico ed originale, un musicista che vive e ama fare musica, e lavorare con essa.
Hai citato Giorgio Poi, per quanto riguarda la musica italiana: chi sono gli artisti che più ti hanno influenzato?
Rino Gaetano, per dirne uno, avanguardia sonora e testuale. Lucio Battisti, ovviamente. Ultimo ma non meno importante cito Enzo Carella, uno di quei personaggi che hanno dato un enorme contributo alla musica ma che, purtroppo, sono stati dimenticati troppo presto.
La tua utopia di Blisstonia ricorda in qualche modo l’Arcadia di Pete Doherty. In che modo invece la musica straniera ti ha influenzato?
Innanzitutto credo di dover dire quanto io sia ad un livello poetico e artistico inferiore ad un personaggio come Pete Doherty. Un grandissimo e avendolo conosciuto ci ho anche parlato. Io lo dico sempre: i Libertines, gruppo di Doherty, assieme agli Strokes hanno rimesso le chitarre in mano ai ragazzini, ed è fantastico. Hanno rotto quella tristezza e depressione tipica degli inizi del ‘90, riportando in luce quei suoni vitali degli anni ‘70 e ‘80.
Quindi tutto questo è ovviamente indice del fatto che Doherty, gli Strokes, Ariel Pink (e moltissimi altri), abbiano fortemente influenzato la mia giovinezza.
Di te stesso dici “ho iniziato a suonare tardi, sono uno da accordi!”
La tua musica, al contrario, non appare così semplice, non tanto quanto i brani prettamente pop
È quella la grande soddisfazione! Io con il giro di DO faccio il giro del mondo mentre altri ben più abili di me restano qui a Roma. In verità mi dissocio da quello che dici, sul fatto di non scrivere brani pop, perchè è esattamente quello che cerco di fare: compongo canzoni con strofe, ritornelli, assoli, passando magari da ispirazioni un po’ diverse. Possono essere mascherate, diverse, ma alla fine cerco di scrivere buone canzoni pop.
Cosa dobbiamo aspettarci da Weird Bloom per il futuro?
Dopo The Flying Pan Club, ho scritto delle cose in italiano per conto mio ma devo ancora metterle a fuoco. Ho invece all’attivo una collaborazione con Auroro Borealo, un artista folle, peraltro di Milano. Sicuramente continuerò a fare musica in inglese, ho in programma un featuring con Black Snake Moan ed un tour con un musicista espatriato a New York, Nico LaOnda, tra fine maggio ed inizio giugno proprio qui in Italia.
Una piccola curiosità: sappiamo che hai partecipato al SXSW negli Stati Uniti, ma hai mai suonato a New York?
Per sfortuna no! La direttrice artistica dell’Elsewhere, un locale fighissimo, ci ha scritto una volta, dicendoci che era molto interessata al progetto Weird Bloom. All’epoca abbiamo avuto un paio di mesi di stop, perchè stavo diventando padre, e quando l’abbiamo contattata di nuovo abbiamo scoperto che la ragazza aveva cambiato lavoro e non si occupava più del club. Spero che la data in realtà sia solo rimandata!
Potete trovare Weird Bloom su Facebook, Instagram e Spotify
Intervista a cura di Antonio La Mancusa e Edoardo Clerici
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