A fine marzo, l’etichetta di musica prettamente coreana Big Hit ha cambiato nome in HYBE LABELS in seguito all’acquisizione del 100% della Ithaca Holdings, la corporazione di Scooter Braun di cui fanno parte le case discografiche SB Projects e Big Machine Label, unendo di fatto sotto un’unica egida da un lato BTS e TXT e dall’altro Justin Bieber, Ariana Grande, J Balvin, Demi Lovato, Black Eyed Peas, Carly Rae Jepsen, David Guetta, solo per citarne i più conosciuti. Giustamente, la notizia non ha avuto troppa risonanza nel nostro paese, se non su Twitter, dove anche i fan italiani del k-pop si sono scatenati, ipotizzando duetti e collaborazioni.
Qui il video caricato su YouTube in cui si enunciano anche i buoni propositi del grande Ceo:
Bisogna però analizzare il fatto con mente lucida e affrontare certe considerazioni tanto spiacevoli quanto necessarie. Ci sono molti motivi per cui il modello musicale coreano non è apprezzato dagli intenditori nostrani del settore. Innanzitutto, l’approccio coreano per cui un artista è un prodotto: le case discografiche selezionano i futuri idoli in base all’aspetto e alle capacità, dopo di che li istruiscono (in questa fase si chiamano trainee) e uniscono i migliori in possibili gruppi pilotati dalle analisi di mercato, gruppi formati praticamente da sconosciuti a cui viene imposto di sviluppare un legame anche solo fittizio, di copertina, e infine, se si raggiungono le aspettative dei dirigenti, avviene il debutto. Sembra il procedimento di selezione degli acini d’uva per lo champagne.
Per rendere ancora di più l’idea di cosa intendiamo con artista prodotto, dovete riflettere sul fatto che vengono rilasciati almeno due album per gruppo all’anno così da soddisfare il mercato e che le canzoni di cui sono composti vengono scelte a tavolino dalle etichette. I membri di un gruppo non hanno dunque voce in capitolo, in tutti i sensi, visto che le hit registrate magistralmente in studio sono in molti casi troppo ambiziose, e una volta cantate live sciolgono l’incanto.
Ma questo non è un problema, perché in Corea quasi tutte le esibizioni sono in playback, pure i concerti. Una delle altre motivazioni è che le coreografie sono talmente elaborate e veloci che risulta impossibile cantare senza che l’affanno rovini ogni vocalizzo.
Molto sconcertante è anche il modo in cui un membro sotto contratto diventa per così dire di proprietà dell’agenzia, che impone la coabitazione tra i membri, regimi controllati sul cibo, sulle collaborazioni commerciali, sugli affetti famigliari, sui canali social e sulle amicizie. Addirittura, vieta le relazioni amorose. Per quale motivo? Diminuiscono il fatturato e intaccano l’immagine. La società coreana non è di aiuto, dato che appena salta fuori un altarino, il membro del gruppo viene ammonito pubblicamente se non addirittura silurato.
Nonostante i BTS abbiano cercato di prendere le distanze da questo modo di fare poco ortodosso, decantando il loro amore nobile, puro, incondizionato, per la musica nell’album Map of the Soul, il fondo di verità è che si è trattato di una scaltra trovata di marketing. Non si mette in dubbio il loro valore di artisti, bensì il fatto che ovviamente facciano parte di un’etichetta musicale che non campa di magnanimità, ma sui soldi, ricavati anche dalla credibilità. Beh, che dire, ha funzionato: l’album ha fatto il botto.
Mentre c’è chi domanda un singolo Jungkook feat Justin Bieber o Ariana Grande feat Suga, c’è da chiedersi se esistano possibilità concrete che i metodi coreani possano compromettere la libertà artistica a cui tutti gli altri artisti sono abituati. I presupposti, visto che Scooter Braun è stato protagonista di una controversia riguardante l’appropriazione delle canzoni di Taylor Swift, non sono dei più rosei.
Il mondo del k-pop è affascinante, ma rimane il frutto di una società, quella coreana, sviluppatasi da poco e non ancora rodata riguardo a principi basilari sulla quale si fondano le identità nazionali occidentali. Basti pensare a quanta strada abbiano ancora da fare riguardo alla parità di genere, ai diritti LGBT, ai pregiudizi, alla libertà d’espressione, alla censura. Essere fan significa credere in un artista, però attenti alle implicazioni.
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