Sunshine State è la mostra dedicata al regista, visual artist e film-maker Steve McQueen, vincitore del Turner Prize e del Premio Oscar per 12 Anni schiavo (2013).
Il progetto espositivo si sviluppa nello spazio delle Navate e su una delle pareti esterne dell’HangarBicocca, raccogliendo alcune delle opere più rilevanti della carriera artistica di Steve McQueen. In progettazione da più di vent’anni, Sunshine State è stata commissionata dall’International Film Festival Rotterdam (IFFR) 2022 e presentata in anteprima assoluta a Milano.
Sunshine State è un lavoro immersivo che parla il linguaggio visivo di Steve McQueen, che con occhio critico raggiunge il senso più profondo dell’esistenza. Con sei opere filmiche e una scultura presentate in ordine non cronologico, la mostra ripercorre la carriera di McQueen e l’evoluzione della sua produzione artistica. Dalla scuola di cinema al grande schermo, il film-maker riflette sulla storia del cinema e sugli ideali cardine della cultura occidentale.
La mostra
La mostra è organizzata in collaborazione con Tate Modern e curata dall’artistic advisor di HangarBicocca Vicente Todolì. Una versione embrionale di Sunshine State è stata presentata per la prima volta nella galleria londinese nel 2020. Steve McQueen definisce lo spazio espositivo di HangarBicocca “generoso“, aggettivo che usa per descriverne anche il direttore artistico. “[Riuscire ad adattare Sunshine State alla struttura dell’Hangar] è stata una sorta di sfida“, spiega, “ne sono stato sopraffatto all’inizio, ma ho trovato un luogo molto accogliente ad attendermi; ciò che mi è piaciuto molto è che si tratta di uno spazio one entry, one exit, il movimento all‘interno è totalmente libero“.
L’installazione che accoglie il visitatore è Static (2009); una ripresa instabile, disorientante e rumorosa della Statua della Libertà, riaperta al pubblico dopo gli attentati dell’11 settembre. L’opera si contrappone alle due conclusive, Caribs Leap (2002) e Western Deep (2002); queste contrappuntano il sentimento di libertà con le istantanee di due momenti in cui l’individualità è schiacciata dalla storia. La prima opera racconta la conquista francese di Grenada, l’isola caraibica da cui provengono i genitori di Steve McQueen, e il triste epilogo dei tanti nativi che, per evitare di essere catturati, si gettano dal punto più alto dell’isola; la seconda, girata in Super 8, porta lo spettatore all’interno della miniera di TauTona, nota appunto come Western Deep durante il periodo dell’apartheid.
Gli ideali del mondo occidentale e la distruzione del mito nella storia personale di Steve McQueen
“Girare in Super 8 mi permette di dare materialità all’opera; volevo che si vedessero la grana, la polvere e la corporeità della roccia” racconta Steve McQueen alla stampa. All’inizio dei suoi studi artistici, il regista si trovava a New York; qui ha imparato a lavorare proprio in Super 8, che è un supporto “meraviglioso ma pesante“: “all’inizio della mia carriera ero molto stupefatto dalla mancanza di spazio per la sperimentazione, era tutto molto artefatto e prestabilito”.
Per uno come lui, che scrive poco prima di mettersi dietro la cinepresa e si affida molto all’istinto, lavorare su pellicola non era altro che una limitazione; “prima di fare Hunger (2008) non ero mai stato sul set di nessuno perché volevo costruire un mio linguaggio” spiega, “e l’artista è uno scienziato, ha necessità di sperimentare, testare le proprie idee per capire se e come funzionano; a volte è bello saltare senza sapere dove si atterrerà“.
I primi film che portano la sua firma sono quindi frutto di un lavoro molto istintivo, che gode della duttilità del digitale, e che si affidano estremamente alla storia che sono chiamati a raccontare: “di quei lungometraggi posso dire che non sapevo cosa ne sarebbe uscito; quello che vedete è quello che ho visto io per la prima volta quando la storia che racconto ha preso forma. È il soggetto che sceglie l’artista e la foggia che prenderà: per Hunger stavo investigando un episodio storico ed è stato lui a dirmi che sarebbe diventato un film; è eccitante non sapere cosa succederà, ma lo è ancora di più capire come gestire quello che nascerà.“
Sunshine State (2022) e la storia personale di Steve McQueen
D’altra parte, il cinema ha dei canoni che l’arte non ha; è la prosa raffrontata alla poesia e ciò permette a chi la produce di acquisire una libertà che le regole del mondo cinematografico – commerciale – non concedono.
Steve McQueen lo sa bene: l’opera che dà il titolo alla mostra, Sunshine State (2022), arriva più di diciassette anni dopo la sua ideazione. Una struttura speculare proietta una sequenza di immagini continua che parte da un sole infuocato e si evolve in una delle scene più iconiche del cinema degli albori, per la quale McQueen non aveva ottenuto i diritti d’utiliizzo in passato.
The Jazz Singer (1927) è il primo lungometraggio sonoro della storia della settima arte a includere dialoghi in sincrono con il video. In Sunshine State ne vediamo un estratto: il cantante Al Johnson si prepara a entrare in scena a Broadway stendendo della pittura nera sul volto – esibendosi in blackface. La scena è presentata in bianco e nero, su una parte dello schermo, e a colori invertiti in quella accanto, ribaltando anche l’ordine delle immagini cosicché il cantante sembri togliersi la vernice dal viso, anziché applicarla.
“Rimuoversi il trucco è la cancellazione di un mito” racconta l’artista in conferenza stampa; a proposito della pubblicazione dell’opera spiega di aver sempre voluto rappresentare il momento in cui gli ideali crollano, ma di non aver mai trovato la chiave adeguata per farlo. È stata la morte del padre ad avergli dato l’occasione per riprendere quell’idea e trasformarla in arte: “c’è la storia che mi raccontava sempre mio padre a narrare le scene di The Jazz Singer, perché quando se n’è andato mi sono reso conto di quanto improvvisamente quelle parole si amalgamassero bene con la sensazione di distruzione degli ideali e dei miti con i quali siamo cresciuti.”
SteveMcQueen: l’arte può cambiare il mondo?
Sunshine State parla agli ideali e ai miti dello spettatore nel linguaggio filmico artistico di Steve McQueen. L’esposizione, insieme alla rinomata produzione cinematografica del regista, fa sorgere spontanea una domanda: l’arte può davvero cambiare il mondo?
Forse no, spiega McQueen, “ma non possiamo negare che personaggi come Bob Dylan abbiano avuto un’influenza sulla cultura dell’epoca, sia a livello politico che culturale“. Quindi forse sì, l’arte ha qualche carta da giocare per dare supporto al cambiamento. “Con Hunger – la storia di Bobby Sands e dello sciopero della fame per riconoscere lo status di prigionieri politici ai membri dell’IRA – ci stavamo preparando alla proiezione a Belfast, avevamo paura che sarebbe potuto accadere qualcosa di brutto; avevamo guardie del corpo e sicurezza a non finire, e sapete cosa è accaduto? Nulla, il film è uscito come se niente fosse” racconta il regista.
Nelle sue parole, il compito dell’arte è quello di fotografare il punto a cui la cultura è arrivata, ciò che ha digerito e inglobato e ciò che ancora costituisce una ferita aperta. “Le vicende dell’IRA e di Bobby Sands non erano più un tasto scoperto e il pubblico, così come la politica, era pronto a vederle rappresentate al cinema“, spiega.
Al più, conclude, se non è l’intento esplicito dell’artista a dare una svolta alla cultura, l’arte può stimolare il cambiamento segnando un punto da cui partire e indicando una direzione verso cui muoversi.
La mostra sarà ospitata all’HangarBicocca dal 31 marzo al 31 luglio 2022 con ingresso gratuito. Per volere di Steve McQueen, nessun contenuto ripreso all’interno di essa dovrebbe essere pubblicato sui social media. Per maggiori informazioni, vi rimandiamo al sito di Pirelli HangarBicocca.
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